Lombarda, amante degli animali e di tutto ciò che è arte, Thea Bricci trova in racconti, sceneggiature, drammaturgie la sua dimensione ideale. Scopriamo di più su di lei e sul suo romanzo “Il principe triste”.
Ciao Thea, com’è iniziato il tuo percorso di scrittrice?
Ho sempre avuto la propensione alla narrazione. Fin da bambina scrivevo racconti, ma soprattutto fanfiction, anche se, a quei tempi, non sapevo si chiamassero così, anzi, credo che negli anni Ottanta il termine fan-fiction non esistesse ancora. Riguardavano soprattutto Guerre Stellari, un film che aveva colpito enormemente il mio immaginario e poi anche le avventure della mia band preferita di allora: i Duran Duran. Immaginavo come potesse essere la vita di Simon Lebon e di John Taylor e la romanzavo. Una volta adulta, ho frequentato alcuni corsi di scrittura, in particolare un corso di sceneggiatura cine-televisiva che ha dato un’impronta al mio stile, ma mi sono resa conto che sarebbe stato riduttivo fermarmi a quel genere e ho cercato di studiare autonomamente le caratteristiche dei miei autori preferiti. Il risultato dei miei sforzi è stato convogliato nel mio romanzo d’esordio con la Triskell Edizioni, Il Principe Triste. Contemporaneamente ho continuato a dedicarmi alla sceneggiatura e alla drammaturgia realizzando altri progetti che però ho reso pubblici con il mio vero nome, dato che Thea Bricci è il mio nome d’arte.
Quanto la terra di origine, l’Oltrepò pavese, influisce sui tuoi scritti?
Mi viene da sorridere, perché nella tua introduzione parli delle splendide terre dell’Oltrepò pavese, ma purtroppo, vi devo confessare che l’ambiente provinciale in cui sono vissuta è stato uno dei bersagli delle mie critiche e, inevitabilmente, nei miei scritti questo aspetto emerge. Passeggiare in collina, fra le vigne o i castagneti è molto bello, ma l’Oltrepò è un ambiente che mi è sempre andato stretto, sebbene io ammetta di non avere mai avuto l’intraprendenza necessaria per lasciarlo, anche a causa di vicissitudini familiari (ma non ho ancora gettato la spugna).
La zona in cui vivo è culturalmente priva di stimoli e, se si cerca di proporre qualcosa di nuovo, si incontra quasi sempre un muro. Non parliamo poi dei pregiudizi delle persone e dei valori estremamente discutibili. La diffidenza per tutto ciò che è nuovo e diverso rende l’ambiente invivibile per una persona come me e non posso fare altro che isolarmi o cercare altri lidi.
Una delle cose che ho voluto fare scrivendo Il Principe Triste è stato proprio esprimere il mio disprezzo per l’ambiente di provincia con tutte le sue meschinità e pochezze. È un ambiente che tende a tarpare le ali di chi vorrebbe volare e di chi si dimostra divergente dagli atteggiamenti comuni, in cui è facilissimo rimanere emarginati se non si seguono le regole vigenti. In cui ti guardano dall’alto al basso se indossi, dici o fai qualcosa di originale, dove basta un niente per essere messi all’indice.
Purtroppo sono cresciuta in una famiglia che ha sempre avuto il terrore di essere messa all’indice per tutta una serie di ragioni che non sto a spiegarvi perché entrerei troppo nella sfera personale. Tuttavia, nel mio caso, a salvarmi c’erano sempre l’arte e la letteratura e, per citare un’attrice che amo molto, Meryl Streep, la quale, a sua volta, ricorda le parole di un’altra attrice che adoro, Carry Fisher: “Prendi il tuo cuore spezzato e trasformalo in arte!”.
Inoltre, se da una parte volevo denunciare la pochezza del mio mondo provinciale e borghese, dall’altra volevo esprimere la suggestione che una ricca famiglia della mia città ha sempre esercitato su di me. Vi posso assicurare che, in una cittadina di provincia come la mia, certe persone molto ricche vengono ancora venerate come delle divinità. La mia modesta casetta si affaccia proprio sulla loro proprietà. I membri di questa famiglia non si mescolano mai con i comuni mortali e devo ammettere che l’alone di mistero che li circonda ha contribuito ad alimentare la mia curiosità. Ecco perché nel romanzo ho inserito la famiglia Landi (ovviamente Landi è un nome di fantasia), da tutti invidiata per la ricchezza e per il prestigio sociale, ma i cui legami sono invece molto torbidi e problematici.
Natura, animali, svariate forme d’arte: sei sempre alla ricerca di ispirazione e di nutrimento. Puoi fare qualche esempio concreto?
Hai colto proprio nel segno. Sia l’arte che la natura sono per me il nutrimento dell’anima e una fonte continua di ispirazione. Per trovare nuovi stimoli devo viaggiare, andare a visitare mostre oppure ascoltare nuova musica. Sono i mezzi con i quali purifico la mia anima e resetto la mia mente. Amo le città d’arte italiane e ho un debole per Venezia. Devo tornarci almeno una volta l’anno. Sono affascinata dalla cultura classica, latina e greca, ma anche dall’Oriente, dal Giappone e dalla Cina.
Per quanto riguarda gli animali, ti posso dire che i gatti hanno rubato già da molti anni il mio cuore e sto molto bene insieme a loro, ma adoro tutti gli altri animali, di qualunque genere e forma e credo si debba smettere di concepirli esclusivamente in funzione strumentale all’uomo, ma come forme di vita che meritano altrettanto rispetto quanto quella umana.
Ne “Il principe triste” tratti il delicato tema dell’omosessualità. Qual è il tuo parere a tal proposito?
Io sono affascinata dall’omosessualità. Quando vengo a sapere che una persona è omosessuale la trovo immediatamente più interessante. Concepisco l’omosessualità come un valore aggiunto. Nel mio romanzo, ho voluto trattare questo tema soprattutto dal punto di vista estetico e legandolo all’elemento della bellezza. Credo che omosessualità, arte e bellezza siano cose che vanno a braccetto. Non dimentichiamo che tanti grandi artisti e scrittori sono stati omosessuali e questo emerge dalle loro opere straordinarie.
Mi è rimasta impressa una critica che ho letto in una recensione che ho ricevuto da una blogger, in cui si sosteneva che il Principe Triste somigli più a una lectio magistralis sull’arte piuttosto che a un romanzo. Eppure io penso che il significato profondo del mio libro vada trovato proprio in questo. Io ho concepito la storia come un omaggio all’arte e alla bellezza che in questo caso viene incarnata da Denis, il protagonista dall’aspetto androgino.
Denis, il protagonista, vive un profondo disagio sociale. L’omosessualità sembra quasi aiutarlo: puoi spiegarci meglio?
Il mal de vivre di Denis nasce da un disagio di tipo sociale, legato alle vicende della famiglia d’origine, che lo porta a diventare tossicodipendente e all’incapacità di guarire. L’omosessualità diventa la sua salvezza perché lo porta a conoscere Edoardo, un uomo facoltoso che si invaghisce di lui e lo aiuta a riabilitarsi.
Il problema sorge nel momento in cui Denis incontra Andrea, il suo grande amore. Perché Andrea, il co-protagonista, non vuole voler vivere alla luce del sole la propria storia con Denis, cosa che farà nascere in entrambi molto dolore.
Questo ci riporta a un tema molto dibattuto: secondo te oggi come vivono molti gay e lesbiche la loro omosessualità?
Credo che ci siano ancora molti gay e molte lesbiche che faticano ad accettare la propria condizione e che siano vittima di un’omofobia interiorizzata molto difficile da sradicare. Il focus del romanzo resta comunque il tema della bellezza e del desiderio. Non a caso, la parola greca eros può essere tradotta proprio con questo termine.
A chi è ispirato il personaggio di Denis?
Quando ero adolescente e frequentavo il primo anno di liceo (erano ancora gli anni Ottanta) per andare a scuola dovevo prendere dei mezzi, il treno o la corriera, quindi bazzicavo tutti i giorni per la stazione di Voghera. Era un periodo in cui purtroppo l’uso di eroina fra i giovani era terribilmente diffuso e spesso le stazioni erano il ritrovo di quelli che allora chiamavamo impietosamente “tossici” (in effetti le cose non sono molto cambiate purtroppo).
Fra loro c’era un ragazzo che ai miei occhi si distingueva, perché rispetto agli altri era più solitario e allo stesso tempo attraente. Attraente sia in modo positivo che negativo, perché a volte l’attrazione può essere suscitata anche dal pericolo o da ciò che è sbagliato. Dal finestrino della corriera lo vedevo camminare da solo sul ciglio della strada e fare l’autostop. Molti lo deridevano perché sapevano che si prostituiva, vendendosi alle persone che lo rimorchiavano. Spesso avrei voluto conoscere meglio la sua storia. Un’amica, un giorno, mi raccontò di avergli offerto un cappuccino e scambiato qualche chiacchiera con lui, che si era lasciato andare e le aveva raccontato un po’ di sé; per esempio che era stato ripudiato dalla famiglia perché tossicodipendente.
Il suo nome era Loris. Dentro di me, covavo il desiderio di avvicinarmi a lui con una scusa e parlargli, ma allo stesso tempo avevo paura di farlo. Non solo per la mia innata timidezza, ma soprattutto perché ero consapevole di esserne affascinata e temevo che, se gli fossi diventata amica avrebbe potuto portarmi su una cattiva strada. Mi conoscevo ed ero consapevole della mia attrazione verso un tipo di vita “sbagliata”. Leggevo i poeti maledetti, amavo i Doors. Le droghe mi affascinavano, ma c’era in me un istinto di conservazione che mi ha sempre preservato dal farne uso (a parte qualche canna che da ragazzini credo più o meno tutti abbiamo provato a farci: nel mio caso, per esempio, una volta, dopo la prima boccata ebbi un abbassamento di pressione e mi spaventai al punto tale che dissi basta e da allora non ne ho più toccata una.) Quindi mi accontentavo di osservare quel ragazzo di nascosto.
Il fatto è che un giorno lui si accorse del mio sguardo e lo ricambiò. Lo ricambiò intensamente e io precipitai dentro i suoi occhi. In quello sguardo c’era già tutto. Capii che non sarebbe stato necessario informarmi sulla sua storia perché me la stava raccontando con quegli occhi. Malinconia, sensualità, richiesta di aiuto, seduzione, tristezza, speranza e ambiguità. C’era tutto. Non so quanto durò quello scambio, ma per me non è mai finito. Mi trafisse. Fu uno di quei momenti che non si scordano, ma non ebbe un seguito. Lui continuò per la sua strada, probabilmente consapevole di avermi colpito e io per la mia.
Cos’hai trovato in Triskell Edizioni che altrove non ti è stato possibile recepire?
Nutro grande stima per Triskell Edizioni, per Barbara Cinelli e le sue collaboratrici che trovo siano persone di grande intelligenza e lungimiranza. Ho apprezzato molto il coraggio di Triskell di andare controcorrente, scegliendo di inserire nel proprio catalogo una sezione dedicata agli amori omosessuali, cosa che pochissime case editrici hanno fatto in Italia e credo che, a lungo andare, questa scelta le ripagherà, anzi! Credo lo stia già facendo. Triskell Edizioni è una casa editrice emergente di grande professionalità, correttezza e onestà, doti molto difficili da trovare nella giungla dell’editoria per gli autori emergenti.
Anche tu come Thea Bricci vuoi pubblicare un romanzo con Triskell Edizioni? Inviaci il tuo manoscritto!