Giovane autrice nata nel 1991, la milanese Angelica Cremascoli da sempre nutre un profondo amore per i libri al punto da voler farne il suo lavoro. In un doppio senso: come scrittrice e come editor.
Angelica, raccontaci: cosa i ti affascina di più di ciascuno dei due lavori e come immagini di riuscire a coniugarli?
Secondo un’interessante teoria, se l’uomo non avesse pensato, raccontato e sognato storie, non si sarebbe evoluto e avrebbe finito per estinguersi. Narrare è un istinto biologico, esattamente quanto riprodursi, e lo si segue per una ragione molto elementare: sopravvivere.
In tutta semplicità, credo che sia scrittori che editor abbiano la medesima vocazione e appartengano alla medesima specie, definita da Jonathan Gottschall “tribù delle storie”. Entrambi desiderano solo capire e interpretare il mondo attraverso una storia. Ecco cosa mi affascina: l’apparente, ingannevole banalità di un’abitudine che, giorno dopo giorno, ci rende ciò che siamo, a volte addirittura migliori.
Oggi si sente spesso parlare di “editor”, con significati variabili: puoi darci quella che secondo te è la definizione più precisa e corretta del lavoro di questa figura? Qual è il ruolo dell’editor nell’editoria “tradizionale” e come la sua professionalità si sta evolvendo per venire incontro alle esigenze più “digital”?
Penso che la domanda s’inserisca all’interno di una discussione più che attuale e molto delicata. Io stessa ho avviato una ricerca proprio su questo tema in occasione della mia tesi di laurea magistrale e ho riscontrato che, spesso e volentieri, editor ed editori finiscono nella scomoda situazione di doversi difendere, dai tempi che stiamo vivendo e dalla diffidenza di coloro che li abitano.
Tempi di digitalizzazione, di democraticizzazione e, soprattutto, di disintermediazione. Cos’è un editor? Per usare le parole di Mariarosa Bricchi, una grande professionista con cui ho la fortuna di studiare attualmente, compito di editor e redattori è quello di “rendere un testo abitabile”, ponendosi al servizio dei lettori. Ovvero mettere a disposizione la propria esperienza, il proprio talento, la propria sensibilità affinché un prodotto grezzo del pensiero diventi libro. Esiste una professione, e va rispettata. Un ruolo che nessuno, logaritmo o persona, può improvvisare, specialmente adesso che ogni barriera d’ingresso sul mercato, per autori ed editori stessi, si è sgretolata.
L’evoluzione diretta della filiera tradizionale, l’espressione concreta delle esigenze dei fruitori digital, non può essere un futuro/presente disintermediato, perché tutto mostra l’evidente tendenza a ri-mediarsi (basti pensare ai Lit-Blog che si trasformano in piattaforme di servizi o in redazioni para-editoriali) ma piuttosto un’editoria transmediale, pronta ad emanciparsi dall’idea di prodotto, forma e formato specifici per offrire al lettore, al consumatore di storie, dei contenuti liquidi, interoperabili. Un circuito in cui editori ed editor diventano producer, sviluppatori di idee e coordinatori di professionalità diverse, in un campo operativo creatosi dalla convergenza dei vari media. Una volta adottata tale ottica, tutto diventa possibile.
Veniamo alla tua produzione letteraria. Quanto il tuo interesse per la Golden Age Elisabettiana e la filosofia, due passioni non così comuni per una ragazza della tua età, hanno influito o influiscono sul tuo modo di scrivere?
Non so se sia un bene o un male, ma le passioni forti raramente riescono ad essere imbrigliate da razionalità e disciplina. Posso cominciare a pensare a una storia con tutte le buone intenzioni, eppure, immancabilmente, mi ritrovo a filosofeggiare o ad ambientare i miei libri in territorio anglosassone, approfittando di ogni appiglio per parlare di Elisabetta I. Sono fissazioni, che tendo ad attribuire con generosità o sadismo, dipende dai punti di vista, anche alle mie malcapitate protagoniste. Se penso a Engie Porter, per esempio, vedo una predisposizione all’introspezione e alla filosofia, che in parecchie occasioni ho reso esplicita, oltre che un amore smisurato per Londra e la sua storia. Se invece, tornando al presente, penso a Tara, mi accorgo d’aver continuato a invitare il lettore a giocare col pensiero, sperimentando la metaletteratura (o la metanarrazione, per abbassare le pretese) come strumento di racconto.
Alla fine, ciò che si è, la propria essenza più profonda e la propria indole non possono essere nascosti da un fitto velo di parole, anzi. Possono soltanto essere felicemente smascherati.
Parliamo della tua opera principale, “Subh-lair – Una storia”: da cosa ti è venuta l’idea per la stesura di questo romanzo?
Qualche anno fa, io stessa ho trascorso una decina di giorni in Scozia, compiendo parte dell’itinerario attraverso cui guido Tara, Victor e gli altri. Subh-lair è ciò che ho maturato dentro dal momento in cui sono tornata a casa, è il pezzettino di Scozia che ho rubato e a cui ho promesso di regalare una storia. Una volta preso l’impegno, la fantasia mi è venuta in soccorso e ha cominciato a dare un volto ad ogni emozione provata. Il primo, manco a dirlo, è stato quello di William Wallace!
Cosa significa per te editoria digitale?
Significa possibilità, di capire, di migliorare, di curare quel che aveva smesso di funzionare bene. Significa anche sviluppare un pensiero critico per imparare a scegliere e tante abilità diverse per non sparire, per essere competitivo, per non essere lontano. Significa evolversi per garantirsi un futuro e vivere altri cinquecento anni. La digitalizzazione, dei processi, dei prodotti, dell’ecosistema, non è che la risposta del nostro istinto di adattamento e del nostro spirito di sopravvivenza alla paralisi che stava affliggendo la filiera classica del libro, un modo per non arrendersi.
Nell’editoria digitale è nascosta la morte dell’editore? Al contrario, io penso che, per lui, vi sia nascosto un elisir di lunga vita.
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