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[#Anteprima] [#gratis] Wolfsong – Il canto del lupo – TJ Klune

Estratto de “Wolfsong – Il canto del lupo” di TJ Klune

 

granelli di polvere/gelo e metallo

 

Avevo dodici anni quando il mio papà appoggiò una valigia accanto alla porta.

«Perché hai quella?» domandai dalla cucina.

Fece un sospiro grave e roco, e impiegò un attimo prima di voltarsi. «Quando sei tornato a casa?»

«Da un po’.» Provai prurito alla pelle. Qualcosa non andava.

Osservò il vecchio orologio sulla parete. La plastica che copriva il quadrante aveva delle crepe. «Più tardi di quanto pensavo. Ascolta, Ox…» Scosse il capo. Sembrava agitato. Confuso. Mio padre era parecchie cose. Un ubriacone. Andava facilmente su tutte le furie, lasciando che le parole e i pugni prendessero il sopravvento. Un demonio gentile con una risata che rombava come la vecchia Harley-Davidson WLA che avevamo riparato l’estate precedente. Tuttavia, non era mai confuso. Non come in quel momento.

Quel prurito peggiorò.

«So che non sei molto sveglio,» disse e poi tornò a fissare la valigia.

Era vero. Non ero afflitto da un eccesso di intelletto. Secondo mia madre ero a posto. Secondo mio padre ero lento. Mia madre gli aveva detto che non era una gara. A quel punto, mio padre era annegato così tanto nel whisky che aveva cominciato a urlare e a rompere tutto. Non l’aveva picchiata. Non quella notte, almeno. La mamma aveva pianto parecchio, ma non l’aveva picchiata. Me ne ero assicurato. Quando alla fine aveva cominciato a russare sulla sua vecchia poltrona, ero sgattaiolato in camera mia per nascondermi sotto le coperte.

«Sì, signore,» risposi.

Non appena tornò a concentrarsi su di me, vidi nei suoi occhi, e continuerò a crederlo fino al giorno in cui morirò, qualcosa che somigliava a una specie d’amore. «Sei lento. Come un bue,[1]» disse. Detto da lui non sembrava una cattiveria. Era solo un’osservazione.

Mi strinsi nelle spalle. Non era la prima volta che me lo diceva, anche se la mamma gli chiedeva sempre di smetterla. Mi andava bene. Era mio padre. Mi conosceva meglio di chiunque altro.

«Ti prenderanno a calci in culo,» disse, «per la maggior parte della tua vita.»

«Sono anche grosso come un bue,» risposi con sicurezza, perché era la verità. Tanti avevano paura di me, anche se non volevo che ne avessero. Ero enorme. Come il mio papà. Era un uomo grosso con una pancia cascante a causa di tutto l’alcol che beveva.

«La gente non ti capirà,» disse.

«Ah.»

«Non ti comprenderanno.»

«Non ho bisogno che lo facciano.» Desideravo tanto che ci riuscissero, ma capivo perché le cose sarebbero andate così.

«Devo andare.»

«Dove?»

«Via. Ascolta…»

«La mamma lo sa?»

Rise, anche se non sembrava divertito. «Certo. Forse. Sapeva ciò che sarebbe successo. Probabilmente già da un po’.»

Andai verso di lui. «Quando tornerai?»

«Ox. La gente sarà cattiva. Ignorali. Tieni la testa bassa.»

«La gente non è cattiva. Non sempre.» Non conoscevo tanta gente. Non avevo davvero degli amici, ma le persone che conoscevo non erano cattive. Non sempre. Solo che non sapevano come comportarsi con me. Per la maggior parte di loro era così e mi andava bene. Nemmeno io sapevo cosa pensare di me.

E poi mi disse: «Non mi vedrai per un po’. Forse per parecchio.»

«Che mi dici dell’officina?» gli chiesi. Lavorava da Gordo. Ogni volta che tornava a casa, puzzava di grasso, olio e metallo. Le dita erano diventate nere. Aveva camicie con il nome ricamato sopra. Curtis con cuciture rosse, bianche e blu. Avevo sempre pensato che fosse grandioso. Soltanto un uomo fantastico aveva il proprio nome impresso sulla camicia. A volte mi permetteva di andare con lui. Quando avevo tre anni, mi aveva mostrato come cambiare l’olio. A quattro come cambiare una gomma. A nove come ricostruire il motore di una Chevy Bel Air Coupe del 1957. In quelle occasioni tornavo a casa che puzzavo di grasso, olio e metallo, e la notte sognavo di avere una camicia con il mio nome. Oxnard oppure soltanto Ox.

«A Gordo non importa…» si limitò a rispondere.

Mi sembrò una bugia. A Gordo importava parecchio. Era un tipo burbero, ma una volta mi aveva detto che, quando avrei avuto l’età giusta, sarei dovuto andare da lui per chiedergli un lavoro. «I tipi come noi devono restare insieme,» aveva detto. Non sapevo che cosa intendeva, ma il fatto che mi prendesse in considerazione mi bastava.

«Oh…» fu tutto quello che mi uscì.

«Non rimpiango di aver avuto te,» disse. «Ma rimpiango tutto il resto.»

Non capivo. «Si tratta…?» Non ne avevo idea.

«Rimpiango di essere qui,» sussurrò. «Non ce la faccio.»

«Be’, va bene,» risposi. «Possiamo trovare una soluzione.» Potevano andare da un’altra parte.

«Non esiste una soluzione, Ox.»

«Hai messo in carica il telefono?» Glielo domandai perché non lo ricordava mai. «Non dimenticare di caricarlo, altrimenti non potrò chiamarti. Ho un nuovo compito di matematica che non capisco. Il signor Howse ha detto che potevo chiedere a te in caso di bisogno.» Sapevo però che mio padre non era più bravo di me con i problemi di matematica. Si trattava di un corso base di algebra. Mi spaventava, perché era difficile anche se era soltanto base. Che cosa sarebbe successo quando sarebbe diventato avanzato?

Riconobbi la sua espressione. Era arrabbiato. Era incazzato. «Non lo capisci, cazzo?» sbottò.

Provai a non sussultare. «No,» risposi, perché era così.

«Ox, non ti aiuterò in matematica. Non ti chiamerò. Non costringermi a rimpiangere anche te.»

«Oh,» dissi.

«Devi diventare un uomo. Per questo sto cercando di insegnarti questa roba. Ti getteranno la merda addosso. Lascia correre e vai avanti.» Aveva i pugni stretti lungo i fianchi. Non capivo perché.

«Posso essere un uomo,» gli assicurai, sperando che lo aiutasse a stare meglio.

«Lo so,» disse.

Gli sorrisi, ma lui distolse lo sguardo.

«Devo andare,» aggiunse alla fine.

«Quando tornerai?» gli chiesi.

Barcollò verso la porta e fece un respiro che gli riverberò nel petto. Raccolse la valigia e andò via. Sentii il rumore del suo vecchio furgoncino, che si avviò con difficoltà quando mise in moto. Sembrava che avesse bisogno di una cinghia nuova. Glielo avrei ricordato dopo.

***

La mamma rincasò tardi quella notte, dopo un turno doppio alla tavola calda. Mi trovò in cucina, nello stesso punto in cui ero rimasto da quando papà era uscito dalla porta. Le cose erano cambiate.

«Ox?» mi chiamò. «Che succede?» Sembrava molto stanca.

«Ehi, mamma.»

«Perché piangi?»

«Non sto piangendo.» Era vero, perché ormai ero un uomo.

Mi accarezzò il viso. Le sue mani odoravano di sale, patatine fritte e caffè. Mi sfiorò le guance umide con i pollici. «Che cosa è successo?»

Abbassai lo sguardo su di lei, perché era sempre stata minuta, anche se nel corso dell’ultimo anno, più o meno, l’avevo superata. Avrei desiderato ricordare il giorno esatto in cui era successo. Sembrava un evento importante. «Mi prenderò cura di te,» le promisi. «Non avrai più bisogno di preoccuparti.»

Il suo sguardo si addolcì. Notai le rughe attorno agli occhi. La mascella più rilassata. «Lo fai sempre, ma è…» Si interruppe e fece un respiro. «È andato via?» chiese con una voce così piccola.

«Credo di sì.» Presi una ciocca dei suoi capelli e la attorcigliai attorno a un dito. Erano scuri, come i miei. Come quelli di papà. Eravamo tutti così scuri.

«Che cosa ha detto?» domandò.

«Adesso sono un uomo,» le risposi. Non aveva bisogno di sapere altro.

Rise fino a piegarsi su se stessa.

***

Non prese i soldi quando andò via. Non tutti. Non che ne avessimo molti.

Non prese nemmeno una foto. Soltanto qualche vestito. Il rasoio. Il furgone. Alcuni attrezzi.

Se non fossi stato certo del contrario, avrei pensato che non fosse mai esistito.

***

Lo chiamai al cellulare quattro giorni dopo. Nel cuore della notte.

Squillò un paio di volte e poi un messaggio mi comunicò che quel numero era fuori servizio.

Dovetti scusarmi con la mamma il mattino seguente. Avevo stretto la cornetta con tanta forza da romperla. Disse che andava tutto bene e non ne parlammo mai più.

***

Avevo sei anni quando il mio papà mi regalò un set di attrezzi tutti miei. Niente roba da bambini. Niente colori accesi e plastica. Soltanto metallo freddo e vero.

«Tienili puliti, e che Dio ti aiuti se li troverò fuori. Si arrugginiranno e te la farò pagare cara. Questa merda non serve a questo. Capito?» mi aveva detto.

Li avevo toccati con reverenza perché erano un regalo. «Okay,» avevo risposto, incapace di trovare le parole giuste per mostrare quanto gli fossi riconoscente.

***

Una mattina, un paio di settimane dopo la partenza di mio padre, andai in camera dei miei genitori (in camera di mia madre). Era di nuovo alla tavola calda per un altro turno. Sarebbe tornata a casa con le caviglie distrutte.

I raggi del sole provenivano da una finestra sulla parete in fondo, catturando piccoli granelli di polvere.

Quella stanza aveva l’odore di lui. Di lei. Di entrambi. Una cosa sola. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo prima che svanisse profumava come lui. Come lei. Come entrambi. Una cosa sola. Sarebbe servito un po’ di tempo prima che la smettesse. Tuttavia, sarebbe successo. Alla fine.

Aprii l’armadio. Un lato era quasi del tutto vuoto. Erano rimasti degli oggetti, però. Frammenti di una vita che non esisteva più.

Come la camicia che usava per andare al lavoro. Erano quattro, in fondo. La scritta Gordo’s in corsivo.

Su tutte c’era scritto: Curtis. Curtis, Curtis, Curtis.

Toccai ognuna con la punta delle dita.

Sfilai l’ultima dalla gruccia e la indossai. Era pesante e odorava di uomo, sudore e lavoro. «Okay, Ox. Puoi farcela,» mi dissi.

Cominciai ad abbottonarla. Le dita tremarono sui bottoni, troppo grosse e impacciate. Ero maldestro e sciocco. Tutto mani, braccia e gambe, privo di grazia e ottuso. Ero enorme, troppo.

Non appena riuscii a infilare l’ultimo bottone nell’asola, chiusi gli occhi. Inspirai e ricordai l’aspetto della mamma quella mattina. Le occhiaie viola. Le spalle ricurve. «Comportati bene oggi, Ox. Prova a stare fuori dai guai,» aveva detto, come se non facessi altro. Come se mi trovassi sempre nei pasticci.

Aprii gli occhi e osservai lo specchio sull’anta dell’armadio.

La camicia era troppo grande o io ero troppo piccolo. Non ne avevo idea. Avevo l’aria di un ragazzino che giocava a travestirsi. Come se fosse tutta una finzione.

Fissai incupito il mio riflesso. «Sono un uomo,» dissi abbassando di un tono la voce.

Non ci credevo nemmeno io.

«Sono un uomo.»

Feci una smorfia.

«Sono un uomo.»

Alla fine sfilai la camicia di mio padre e la riappesi nell’armadio. Chiusi le ante mentre i granelli di polvere continuavano a fluttuare nella luce del sole che tramontava.

 

[1] In inglese “ox” significa “bue”. (N.d.T.)

 

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