Estratto de “OttO” di Michela Monti.
Prologo
Il sangue mi scivolava giù dai gomiti.
Le urla, i piedi che calpestavano il cemento, il metallo, i corpi; erano un concerto terrificante, qualcosa che sentivo fin troppo vicino, che a mano a mano diventava sempre più reale, più forte del fischio che si era impossessato delle mie orecchie.
Da quanto era successo?
Dove avevano colpito?
Erano veramente loro ad averci trovati?
E soprattutto, dov’era Gabriel?
1.
Giorno 1
Il risveglio fu tremendo.
Non sapevo dove fossi, cosa stesse succedendo, chi avevo attorno.
Ricordavo la voce fresca che aveva mormorato «Mamma» mentre tornavo al mondo, ma i miei pensieri erano corsi immediatamente verso un’altra madre. La mia. Quella che non vedevo da troppo, che ricordavo a fatica.
Poi s’intrufolò la consapevolezza.
Sparo. Ospedale. Sadie.
Ero io. La mamma invocata dalla piccola voce ero io.
Sentii un formicolio alle mani, la necessità spasmodica di toccare mia figlia, e lei gridò.
Chiamava i medici con forza, ferma al mio fianco. Aveva afferrato le mie dita e tremava.
Volevo parlarle, tentavo di respirare, ma qualcosa mi premeva sulla faccia e raschiava in gola. Cercai di strapparmi via dalla bocca quell’aggeggio, o almeno pensai di farlo.
Arrivò un’infermiera.
«Si calmi!» ordinò, senza che l’ascoltassi.
Non m’interessava calmarmi. Potevano andare a farsi fottere, lei e la sua calma. Volevo muovermi. E non capivo perché fosse così difficile.
Le braccia rispondevano, tiravo Sadie e spingevo la donna che cercava di tenermi ferma, ma il panico cresceva.
Le gambe erano pesanti, la schiena piantata nel materasso, e quella roba in gola faceva sempre più male.
Altre persone. Un uomo calvo e una donna dal caschetto scuro. Lui mi prese i polsi e lei, spostandosi veloce, iniziò a toccarmi e registrare le mie condizioni. Poi portò le mani al mio viso, strappando qualcosa che permise a un sorso d’aria di passare.
Non vedevo più Sadie. Avevo perso le sue dita.
Arrivò una cannula per aspirare e iniziarono a muovere quello che avevo in bocca, lo spostavano, spingendo sulla carne. La testa girava, l’infermiere non allentava la stretta. Poi nausea, sempre più forte. Brividi.
La gola si contrasse, il tubo uscì e io gli vomitai addosso.
Giorno 3
«E quando l’hanno estubata ha rimesso,» annunciò Sadie alla sua interlocutrice.
«Mica l’ho fatto apposta!»
«Sì, ma ti è uscito tutto talmente forte che l’infermiere aveva la faccia schizzata!» rincarò ridendo. Piccola serpe. Mi studiava, scattando con lo sguardo da me a sua zia e facendo rimbalzare i boccoli chiari.
«Grazie per i particolari, ragazze.»
«Ti assicuro che non li avrei diffusi molto volentieri se fosse dipeso da me, Jules,» aggiunsi, scoccando un’occhiataccia a mia figlia.
«Ma è vero!» si difese lei.
«E comunque ci tengo a precisare che erano praticamente solo succhi gastrici, perché…»
«Mel, piantala.»
Julie mi guardava esasperata. Pallida, coi suoi capelli neri lunghi quasi alla vita e l’espressione intelligente.
«Ti fa proprio schifo, eh?»
«Certo,» rispose incrociando le braccia sullo stomaco. «Te lo dico con affetto, ma stai parlando del tuo vomito. Mi fa abbastanza schifo.»
Sollevai le sopracciglia e stesi il lenzuolo con gesti ampi.
«Ho capito,» sbuffai con fare teatrale, «essere stata in coma per quasi un mese non comporta nessuna agevolazione con voi. Temo addirittura che dovrò chiedere scusa. E non sarò neppure la sola,» precisai con un’alzata di spalle, cercando la mia complice. Sadie sorrise arricciando il naso, poi annuì. Jules era seduta di fronte a lei, dall’altra parte del letto. Vidi la mia bambina scattare di corsa verso di lei e saltarle al collo.
«Scusa, zia,» disse, schioccandole un bacio sulla guancia. Un attimo dopo fece lo stesso con me.
«A cosa devo tanta gentilezza?» chiesi con la mano sul cuore.
«Altrimenti poi diventate gelose,» spiegò, concludendo con una linguaccia. Julie strinse Sadie per la vita. Lei le mise una mano sulla spalla.
«Un mese,» mormorò la mia amica. «È sembrato un secolo. Non ci speravo più.»
E inclinò la testa per guardarmi, passando la mano tra le ciocche.
«Ah be’, molte grazie, bella personcina che sei!» sdrammatizzai.
Lei ridacchiò.
«Piantala, e cerca di stare meglio. Sadie,» aggiunse, sollevando lo sguardo, «non hai da fare?»
«Non molto, zia. I compiti ormai li ho finiti.»
«Sadie.»
«No, davvero. Praticamente ho fatto tutto.»
«Sadie Redding!»
E la piccola serpe coi capelli ricci batté i piedi sbuffando.
«Sì, sì, vi lascio parlare in pace, pettegole,» disse, recitando la parte della donna infinitamente seccata.
Un bacio a me, uno alla sua tutrice, e uscì agitando la mano. Un soffio di vita che sfuggiva al controllo. Semplicemente, come era arrivata, andò via.
Sospirai, felice e stupita.
«Funziona così? Basta chiedere?»
«No, quasi mai,» rispose Julie, ridendo, «ma è sveglia e capisce le necessità degli altri, quando le va.»
«E come torna a casa?»
«Con l’auto che le ha messo a disposizione tuo padre.»
«Guida?» esclamai sghignazzando.
Julie scoppiò a ridere. Poi tirammo due grossi respiri e i discorsi cambiarono.
«Questa volta non credevo ce l’avresti fatta.»
«Non ci credevo neanche io.»
Chiusi gli occhi ritrovando l’espressione di Gabriel, l’ultima cosa che avevo visto prima di perdere i sensi.
Era stato difficile. E troppo bello per essere vero. Non bastava.
Anni di lacune, poi finalmente avevo ritrovato la mia strada, la voglia di combattere, le ragioni e le prove per vincere. Ero riuscita a chiudere il capitolo. Eppure qualcuno aveva deciso di aggiungere altro carico.
L’uscita dal carcere di ReBurning aveva attirato una folla eccessiva. Gabriel era forte, più di chiunque altro avessi conosciuto, ma non poteva proteggermi da tutto. Lo avevamo capito troppo tardi.
Purtroppo non poteva sapere che sarei sfuggita al suo controllo per andare da Julie, non poteva scorgere Audrey tra la folla. Poteva solo sentire. E aveva ascoltato. Uno sparo. Un colpo unico che aveva zittito il nostro mondo.
Poi tutto aveva cominciato a vorticare follemente. Teste, grida. Le stelle.
Sentii una lacrima scivolarmi sulla guancia, e la mano di Julie.
«Mel?»
«Sì,» mormorai stropicciandomi il viso, «sì, sono qui.»
«Tutto ok?»
Annuii. Articolare una frase mi sembrava troppo difficile.
Jules fece un mezzo sorriso e si allontanò, tornando ad appoggiarsi allo schienale della sedia.
«Cosa sai?»
Strizzai le palpebre, deglutii e la guardai in faccia.
«Riguardo?»
«Audrey, Jude, Richard.»
«Bel terzetto,» commentai con una smorfia, «ma non so nulla, a parte che non mi sono mancati.»
«Tuo padre non ti ha raccontato niente?»
«Mio padre è passato due volte, ha chiesto come stavo perché è tradizione farlo dentro a un ospedale, poi si è volatilizzato. Cinque minuti netti per compiere il suo dovere e soddisfare le convenzioni.»
«Ok,» sussurrò Julie, fissandomi.
Ricambiai lo sguardo con fermezza.
«Pensi di spiegarmi qualcosa o devo farmi portare del pentotal?»
«Sei sicura di volerlo sapere da me?»
Mi sporsi per metterle una mano sul ginocchio.
«Julie Corbin, so quanto ogni parola ti costi fatica,» ridacchiammo entrambe, «ma ti prego: illuminami.»
«Scema.»
«Sì,» ammisi tranquilla. Poi incrociai le braccia e le feci un cenno col capo. Lei si spostò in avanti, mise i gomiti sulle ginocchia, e cominciò.
«Audrey è in attesa di giudizio. Ha confessato la sua colpevolezza quasi subito, però si è impegnata a ritrattare la dichiarazione altrettanto in fretta. E le sue impronte sulla pistola sono inservibili. Non so come finirà.»
Assorbii il primo colpo stringendo i denti e odiando quella donna solo un po’ più di prima. Del resto, Audrey aveva anche cercato di farmi togliere Sadie, quindi i livelli di tolleranza nei suoi confronti erano già decisamente bassi. Non mi servivano altri dettagli.
«Jude sta rischiando il posto di procuratore. Si è messa a scavare nella vita di Monroe, ha cercato di far invalidare alcune sue sentenze, ma non ne ha ricavato nulla. Solo guai.»
Ancora odio. E competenza. Ed enorme fame di vendetta. Troppo, tutto insieme. Ma non mi riguardava.
«Resta Richard,» mormorai.
«Esatto. Richard,» confermò. Ci scrutammo in silenzio per un attimo.
«È stato assolto.»
Contrassi il corpo. Pugni, mandibola, spalle.
«Non hanno ritenuto che ci fossero prove sufficienti per incriminarlo, e Jude ha reso la sua fuga una conseguenza logica del panico da paternità. L’ipotesi ha preso forma, i giurati ci hanno creduto, quindi Richard è libero.»
Iniziò a ronzarmi la testa. Non riuscivo ad allentare la spinta delle unghie sui miei palmi.
«Come può essere stato processato due volte per lo stesso crimine? Non è…»
«Eri tu quella giudicata nel procedimento che hai vinto, Mel. Sei stata tu l’eccezione, e anche questo ha influito.»
«Cazzate,» sibilai.
«Lo so, ma la giuria ha deciso così.»
«Sono cazzate!» urlai a denti stretti. «Lo avevo davanti, ero lì! Chi dovrebbe essere stato? Non io, non lui, chi allora?»
Iniziai a vedere piccole luci. Sentivo la rabbia che riempiva tutto. Quell’essere mi aveva lasciata a marcire dentro un carcere di massima sicurezza per dieci anni, lontanissimo dal preoccuparsi di sua figlia. Aveva ucciso il mio stupratore, il mio ex ragazzo, il suo amico, e si era scrollato la colpa di dosso senza battere ciglio.
«Cazzate!» strillai ancora.
Stavo esplodendo. Le luci aumentarono. Cominciai a vibrare e sentii l’urina calda tra le gambe.
Le macchine attaccate a me fischiarono, poi più nulla.
Giorno 10
Bastò poco tempo perché cominciassi a detestare quella condizione.
Orari di visita, persone che mi accompagnavano ovunque per qualunque cosa, sedute di fisioterapia. Controlli.
Immobilità.
Le differenze col carcere erano poche. Non avevo le sbarre elettrificate, ma ero prigioniera del mio corpo. E non c’era Gabriel.
Dopo le convulsioni era servita una mezza giornata per riprendermi, poi avevo chiesto a Julie come cercarlo. Sapevo che era in missione, ma non riuscivo ad aspettare. Ero stanca di farlo.
Chiamai ReBurning con il numero che mi aveva scritto su un foglietto, mi fecero registrare la voce per il riconoscimento, poi attesi. Riattaccai. Tentai di nuovo. Venni congedata. Un’altra telefonata. Un altro muro.
Ok. Contattare Gabriel era decisamente complicato.
Non aveva uno smartphone. Non lo voleva.
Possedere un dispositivo gps mobile significava essere rintracciabili ovunque, far sapere a tutti dove ti trovavi, e lui si rifiutava di farlo. Con il suo ruolo di Cacciatore il rischio di attacco da parte degli Irregolari era costante, perché aiutarli?
La cosa più buffa era stata la manovra per convincere anche Sadie a non usarlo. Uno studio approfondito della mente preadolescenziale, da quanto mi avevano raccontato. Ma la riuscita dell’impresa si era rivelata più ardua del salvataggio di una detenuta dal braccio della morte.
Ridacchiai. Avrei dovuto ricordarmi di dirglielo.
Qualcuno bussò e aprì la porta, senza aspettare.
«Tre visite in dieci giorni!» esclamai. «Ti vedo più ora di quando ero a casa!»
«Mi pare che la ripresa stia procedendo molto bene,» osservò Aaron Redding con un sorrisino sbieco, «hai lo stesso carattere docile e lo stesso umorismo delicato di sempre.»
Si avvicinò e vacillò un momento. Sembrava volesse toccarmi, ma si limitò a sedere sul letto.
«Come stai, Melice?»
«Meglio. Ron mi distrugge, però la situazione dovrebbe progredire col tempo. Quantomeno lo spero,» sbuffai, «altrimenti dovrai difendermi per un altro omicidio. Stavolta commesso da me.»
«Chi sarebbe Ron?»
«Il fisioterapista, colui che probabilmente sarà destinato a perire,» risposi soddisfatta.
Rifletté e annuì lentamente, percorrendo il mio corpo con gli occhi.
«Come, ehm…»
«Le gambe?» conclusi al suo posto.
Mio padre le guardò senza parlare.
«Riesco a fare qualche movimento, inizio a sentirle, ma pesano. Pesano tantissimo.»
Strinsi le dita attorno alle cosce magre, rendendomi conto dell’assurdità. Però era vero. Pesavano. Da morire.
«Cosa ne pensano i medici?»
«È presto per fare piani complicati. Fisioterapia e ancora fisioterapia è il motto. Dopo il coma possono servire tempi lunghi, e dieci giorni sono decisamente pochi, secondo loro.»
«Secondo te?»
Morsicai forte il labbro.
«Secondo me sono sufficienti per impazzire,» confessai. E non bastava a descrivere cosa provavo. Ero lì. Ero sempre lì.
Mio padre si mise a sedere, accavallò le gambe e intrecciò le dita davanti alle labbra.
«Ti hanno parlato della soluzione alternativa?»
Scattai in avanti. Aveva la mia piena attenzione.
«Quale soluzione alternativa?»
«Elettrodi. Piccoli impianti nel cervello e all’interno delle fasce muscolari in entrambi gli arti. Potresti riprendere subito a camminare e muoverti, senza soffrire, con risultati certi. La fisioterapia sarebbe comunque utile, ma meno pesante, e fatta da casa. Non come ora, in questo posto,» disse, indicando tutto l’ambiente con un velo di disprezzo.
Sembrava meraviglioso, eppure l’ombra del dubbio offuscava lo splendore di quella notizia.
«Con chi ne hai parlato?»
«Alla clinica specializzata che hanno aperto da…»
«Con chi?» ripetei con forza.
«Melice, potrebbero servire mesi!»
E non mi servì altro.
Ci guardammo con aria di sfida, poi mio padre si rilassò contro lo schienale, sollevando gli occhi verso il cielo.
«Il dottor Ander, testona. Era preoccupato per le tue condizioni.»
Annuii.
Il dottor Ander aveva sentito il bisogno di chiedere come stavo a mio padre. Il dottor Ander, il più anziano dei tre componenti della Commissione, l’uomo di cui Gabriel si fidava.
La mia impazienza urlava di fare immediatamente quell’operazione, ma la parte più fredda della mia mente no. In tutto il caos di quegli anni, in tutta la foga dell’ultimo periodo dentro al carcere, qualcosa avevo iniziato a capirla. Sapevo fin dal primo momento che dietro ai piccoli impianti menzionati da mio padre poteva esserci soltanto una cosa. Gli innesti legali erano tutti nelle mani di ReBurning: loro avevano la tecnologia, loro la sfruttavano.
Cosa poteva comportare un’opzione simile? Quali legami?
Veramente potevo anche solo prendere in considerazione di riallacciare i contatti con quel mondo? Di sottostare a quel controllo?
«Non lo farò.»
«Melice…»
«Ho detto che non lo farò,» rimarcai. «Mi rifiuto di rimanere ancora incosciente nelle loro mani. I medici qui non hanno parlato di nulla del genere…»
«L’Hoots è un ospedale vecchio, Melice. Hanno attrezzature obsolete, tecniche poco innovative.»
«Mi hanno salvato la pelle. Sono abbastanza, per me,» sentenziai.
Mai più a ReBurning. Mai Più.
«Posso chiederti di ragionarci?»
«Certo, anche se non significa che lo farò.»
Aaron Redding si alzò di scatto, rovesciando la sedia.
«Va bene, allora,» sbottò. «Soffri e spreca la tua vita qui dentro, quando invece potresti già essere a casa con le persone che ami. Prego, pensa sempre solo a te stessa!»
Rimase con la bocca socchiusa e l’espressione infuriata, poi sparì, sbattendo la porta.
Strinsi le lenzuola tra le dita, pensando alle sue parole. Era quello che volevo io o quello che voleva lui? Chi era il vero egoista?
Strofinai il palmo sulla fronte e presi il telefono della camera. Dettai il numero, lo smartphone compose.
«ReBurning Prison, buonasera.»
Chiesi di Gabriel. Mi riconobbero.
Aspettai.
Aspettai ancora.
E non trovai nessuno.
Quella notte mi alzai per andare in bagno, ma caddi. Lo sapevo, eppure avevo tentato comunque.
Da allora tentai tutte le notti.
Dovevo camminare.
Michela Monti vi aspetta il 12 novembre!
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